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La rilocalizzazione in Italia e nel mondo: definizione e ragioni di una tendenza
Quando le imprese tornano a produrre nei paesi d’origine.


Consulenza e Formazione

La rilocalizzazione in Italia e nel mondo: definizione e ragioni di una tendenza

13 Settembre 2013

AGGIORNATO AL 25 FEBBRAIO 2022

Le imprese tornano a produrre in Italia.
Si tratta di un fenomeno globale, il cosiddetto back-shoring (rilocalizzazione), che coinvolge imprese statunitensi dal 2010 e vede l’Italia come primo territorio in Europa.

A differenza dell’off-shoring, della delocalizzazione, fenomeno che ha contraddistinto in passato molte scelte industriali soprattutto verso i Paesi asiatici, il back-shoring vede la ricollocazione della produzione aziendale nel territorio d’origine.

Lo avevamo anticipato in questi giorni, in occasione della ricerca diffusa dall’Uni-Club.

Mentre “dieci anni fa potevamo parlare di casi isolati e controcorrente – ha spiegato Luciano Fratocchi, docente di ingegneria economica all’Università dell’Aquila – oggi si sta invece affermando un trend di back-shoring a livello globale, che vede l’Italia protagonista“.

Dal 2007 al 2012, infatti, in Europa c’è stata una crescita esponenziale, dai 44 ritorni del 2009 ai 68 dell’anno scorso.
E in Europa l’Italia rappresenta il 60% di tutte le “ricollocazioni“.

 

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La ricerca


Il gruppo di ricerca Uni-CLUB ha elaborato un vero e proprio database (Uni-CLUB MoRe Back-shoring), con 304 casi di operazioni di back-shoring.

Non si tratta ovviamente di una ricerca esaustiva per tutti i casi, ma può dare, secondo il gruppo, un’idea del fenomeno e delle sue peculiarità.

Proprio per mettere in evidenza queste caratteristiche i dati sono stati suddivisi in diverse categorie: a seconda del Paese di origine, del tipo di produzione, degli anni in cui è stato implementato il back-shoring, e di quali Paesi sono stati “lasciati” per tornare nel territorio d’origine.

Con una particolare attenzione ai casi italiani, sono stati introdotti anche altri criteri, come il time range tra l’off-shoring e il back-shoring, le dimensioni dell’azienda, e le motivazioni per cui l’azienda è ritornata a produrre nel Paese d’origine.

I risultati

Dei 304 casi analizzati, 134 riguardano aziende statunitensi, la maggior parte delle quali ha lasciato la Cina (81 operazioni di back-shoring) o altri Paesi asiatici (37), mentre poche aziende hanno lasciato l’America Centro-meridionale (8 operazioni), l’Europa occidentale (5), l’Europa dell’Est (2) e l’America Settentrionale (1).

Al secondo posto di questa classifica si colloca l’Italia, con 68 operazioni back-shoring, 26 dalla Cina, 18 dall’Europa dell’Est, 11 da altri Paesi asiatici e dall’Europa occidentale, infine 2 dal Nord America.

La Germania, con 42 operazioni di back-shoring, ha abbandonato Cina ed Europa Occidentale (11 e 10 operazioni), Europa Occidentale (9), altri Paesi asiatici (6) America Centro-meridionale (5) e Nord America (1).

Ben 20 sui 29 casi di back-shoring francesi provengono dalla Cina e 13 provengono dalla Gran Bretagna.

Al primo posto, quindi, tra i Paesi “lasciati” dalle aziende c’è il territorio cinese, con 163 casi analizzati, seguito dagli altri Stati asiatici (57) e dall’Europa dell’Est (37).

La maggior parte delle imprese che ha lasciato la Cina lo ha fatto tra il 2007 e il 2010 (78 operazioni), e nello stesso periodo sono stati abbandonati, preferendo i territori d’origine, anche l’Europa dell’Est e l’Europa occidentale, mentre il picco di “fughe” dagli altri Paesi asiatici è avvenuto nel 2012.

Delle 304 operazioni di back-shoring analizzate, la maggior parte riguardano aziende appartenenti al settore del vestiario e delle calzature, seguite da quelle del settore meccanico, elettronico e delle forniture.

In attesa della Legge di stabilità

Il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, ha assicurato che la deducibilità per i beni strumentali delle imprese “sarà inclusa alla Legge di Stabilità”, affermando che “non salta un anno, riguarderà infatti l’anno di imposta 2013 e quindi sarà scaricata sulla dichiarazione del 2014“.

Il sottosegretario dice anche che “abbiamo tempo fino al 31 dicembre“.

Deve, però, essere trovata la copertura finanziaria per poter inserire la deducibilità nella Legge di Stabilità.

La copertura finanziaria per far fronte a diverse emergenze, tra cui quella della deducibilità per le imprese (per cui servirebbero 1,5 miliardi di euro) e dell’alleggerimento della Service Tax (2 miliardi di euro) in vista della Legge di Stabilità, è pari a un totale di 10 miliardi di euro.

Coperture che, nei confronti dei nostri obblighi verso l’Europa (per mantenere un rapporto deficit-pil sotto al 3%), devono essere certe.

Per poter rendere deducibile per le imprese l’imposizione per i beni strumentali, servirebbero quindi circa 1 miliardo di euro.

Con la Legge di Stabilità si dovrebbe trovare una copertura finanziaria di 2 miliardi di euro per rendere la Service Tax più leggera della somma di Imu e Tares, pari a 5 miliardi di euro.

Il fenomeno in Italia


Per quanto riguarda l’Italia il gruppo di ricerca ha intrecciato i dati delle 68 operazioni di back-shoring con quelli relativi ai paesi “lasciati” e alla tipologia di aziende interessate.

È emerso che la maggior parte delle operazioni ha riguardato aziende del settore del vestiario e delle calzature, “tornate” dalla Cina, da altri Paesi asiatici e dall’Est Europa, seguite dalle operazioni di aziende del settore meccanico, tornate principalmente dall’Europa occidentale e da quella dell’Est, oltre che dalla Cina.

Ma quali sono le ragioni di questi ritorni?
L’indagine condotta dal gruppo di ricerca Uni-CLUB ha previsto un’interrogazione agli imprenditori italiani.

Il 42% ha risposto che la ragione principale del ritorno è l’effetto positivo che ha il made in Italy sul consumatore, associato a prodotti di buona manifattura; il 24% ha indicato come motivazione per operazioni di back-shoring lo scarso livello di qualità della produzione off-shored; mentre la terza ragione (per il 21%) è la necessità di un’attenzione maggiore verso i bisogni del clienti; per il 18% la pressione sociale nel paese di origine; per il 16% il fatto che ci sia un più elevato livello di competenze nel Paese d’origine; per il 13% la disponibilità di capacità produttiva a seguito della crisi economica nel Paese di origine e la riduzione del divario del costo del lavoro; infine, per l’11%, minor costi logistici nel Paese d’origine.





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