Il terremoto di magnitudo 7.7 che ha colpito il Myanmar il 28 marzo ha fatto tremare non solo il territorio ma anche le fondamenta della supply chain globale della moda. L’evento sismico ha provocato gravi danni strutturali a numerosi stabilimenti tessili, causando l’interruzione della produzione e lo sfollamento di migliaia di lavoratori, prevalentemente donne. In un settore già fragile, la tragedia ha portato alla luce le criticità logistiche e le debolezze etiche del sistema di approvvigionamento.
Negli ultimi anni, il Myanmar si è affermato come un hub manifatturiero strategico per brand come H&M, Inditex (Zara, Pull&Bear) e tanti altri.
L’interruzione della produzione locale rischia ora di generare:
Le ripercussioni non si fermano ai bilanci: oltre mille operai si trovano senza lavoro e senza casa, mentre la vulnerabilità di donne e ragazze cresce. L’ONU è intervenuta con aiuti medici a Mandalay e Nay Pyi Daw, ma la situazione resta critica.
Già prima del sisma, la filiera birmano-moda era al centro di accuse sistemiche di sfruttamento lavorativo. Secondo il Business & Human Rights Resource Centre, solo nei primi quattro mesi del 2024 si contano 108 episodi di abusi legati a 80 marchi internazionali. Dalla presa del potere da parte della giunta militare nel 2021, sono state documentate 665 violazioni dei diritti dei lavoratori, spesso ignorate o minimizzate dai grandi brand.
Il caso Myanmar evidenzia l’urgenza, per chi gestisce catene logistiche complesse, di ripensare i criteri di sourcing integrando non solo efficienza e costi, ma anche resilienza e responsabilità etica. Una diversificazione strategica dei fornitori e un’analisi preventiva dei rischi geopolitici e ambientali potrebbero evitare shock futuri.
In un mondo sempre più interconnesso, la tenuta delle supply chain globali non può più prescindere da solidi principi di sostenibilità, tanto ambientale quanto sociale. Ignorarlo non è solo una questione morale, ma un errore strategico.
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