Il marketing è un po’ come un primo appuntamento: se parli solo di te, non ve ne saranno altri. Così John Hernandez, Amministratore delegato di Selligent, apre il report condotto dall’Osservatorio globale Selligent, arrivato alla seconda edizione, che compara le opinioni di 5000 consumatori in tutto il mondo su personalizzazione, privacy, social media e tecnologie emergenti.
I consumatori oggi si aspettano che i brand li conoscano (il 71% si aspetta che il servizio clienti conosca la sua “storia” al primo contatto e il 90% vuole che eventuali problemi vengano risolti entro 24 ore), ma sono allo stesso tempo preoccupati per la propria privacy (il 51%, ad esempio, ha paura che gli assistenti vocali ascoltino senza il loro consenso).
Come creare il giusto equilibrio tra privacy e personalizzazione?
Il 71% del campione ritiene che la personalizzazione sia molto importante e il 51% è disposto a condividere dati personali in cambio di un’esperienza più personalizzata, ma il 74% afferma che la privacy è più importante dell’esperienza online e il 41% ha ridotto l’utilizzo dei social media per preoccupazioni legate alla privacy.
Il 45% usa gli assistenti vocali, ma il 51% ha paura che questi ascoltino senza il loro consenso e il 69% trova minaccioso ricevere pubblicità dagli assistenti vocali in modo automatico.
Come uscirne? La chiave per dare al consumatore quello che vuole è offrire una personalizzazione che rispetti anche la privacy.
Creare messaggi su misura e personalizzare le interazioni per fidelizzare il cliente è una strategia giusta, ma è innanzitutto necessario capire a quale cliente ci stiamo rivolgendo. Emerge, ad esempio, un dato interessante.
Più è giovane il consumatore e più è avverso ai social media, o comunque più attento alla questione della privacy, tanto da aver ridotto (41%) o addirittura abbandonato (32%) il social proprio per questo motivo. Una tendenza che ha coinvolto soprattutto Facebook (40%), e in misura minore Instagram (17%), Twitter (18%), Snapchat (16%).
E sono ancora una volta le generazioni più giovani ad essere più sospettose verso gli assistenti vocali.
Allo stesso tempo, i giovani sono cresciuti nell’era digitale e quindi si aspettano di ricevere un servizio molto personalizzato. È importante fornire trasparenza su come vengono raccolti i dati e perché, e conservare soltanto i dati che aggiungono un valore all’esperienza dei clienti.
Ecco qualche utile esempio, che viene fornito dal report. Se le inserzioni arrivano al cliente sulla base dei suoi mi piace, degli elementi salvati, dei pin, dei retweet, la personalizzazione risulta utile per il 53%, ancor di più se le inserzioni mostrano in modo proattivo prodotti che potrebbero interessare sulla base degli acquisti precedenti o delle ricerche, proponendo in questo caso offerte speciali (per il 64%).
La personalizzazione è particolarmente apprezzata (71%) se al cliente viene chiesto se gli è piaciuto l’ultimo acquisto.
I tasti dolenti arrivano se il cliente vede che le inserzioni gli vengono mostrate sulla base di quello che è stato recentemente chiesto ad un assistente vocale (52%).
Il 69% ritiene minacciosa un’inserzione mostrata sulla base di quello che l’utente ha detto in una normale conversazione, senza rivolgersi all’assistente vocale.
In generale, i consumatori pensano sia utile quando i brand interagiscono in risposta alle loro azioni, ma trovano sia minaccioso o intrusivo quando i brand fanno il primo passo.
È bene, quindi, non esagerare nel cercare di interagire con i clienti e rispettare feedback e preferenze dei consumatori.
Canali emergenti quali gli assistenti vocali possono essere efficaci, ma sono naturalmente invasivi, quindi è meglio iniziare gradualmente.
Chiedere feedback, testare i dati anagrafici e lasciare che siano i consumatori a guidare il brand circa il modo in cui vogliono essere contattati è sicuramente la strategia migliore, secondo il report.
Contattare il servizio clienti è ancora il modo preferito dai consumatori, indistintamente dalla fascia d’età, per risolvere un problema, anche se una buona fetta dei più giovani tenta di risolvere il problema da sé trovando le informazioni online.
Il 14% contatta il servizio clienti per avere informazioni su un ordine e per verificare lo stato della spedizione.
È la percentuale più bassa del perché venga contattato il servizio, e ciò si può presumere sia dovuto al fatto che ormai i principali canali di vendita abbiano compreso l’importanza della chiarezza nella tracciabilità dell’ordine.
Il 21% si rivolge ancora al servizio clienti per i resi, e questo non è incoraggiante, se si pensa che più la procedura di reso è semplice e più il consumatore è soddisfatto.
Il 26% ha bisogno del servizio clienti nel caso debba esprimere delle lamentele, e qui ci si potrebbe domandare se non esistano effettivamente altre modalità, più semplici e immediate, anche se possiamo facilmente risponderci da soli, ammettendo che è ancora importante per chiunque poter “parlare” direttamente con qualcuno.
Un fatto confermato dal report: il 43% del campione preferisce avere un’interazione con un agente al telefono.
Ben il 40% del campione dice di rivolgersi al servizio clienti per porre domande su un servizio o un prodotto in particolare.
In questo caso il dato è interessante, perché apre ad una provocazione. Immaginate, si legge nel report, “un mondo in cui un’azienda è in grado di prevedere il bisogno di un nuovo prodotto o servizio, prima ancora che il cliente ne parli al servizio clienti. E, in quel momento, invia una notifica push con le informazioni che il cliente stava cercando. In questo modo, fornisce valore continuo al consumatore. Questa è una Customer Experience senza pari”.
Ed ecco gli errori da non fare, quando è il cliente a decidere di mettersi in contatto con noi.
Ecco, invece, le strategie vincenti: