Si chiama Retail Apocalypse e sta ad indicare il fenomeno che riguarda la chiusura dei negozi fisici in America a causa del cambiamento comportamentale della popolazione.
Questo avvenimento sta ovviamente prendendo piede anche in Italia, proprio perché le nuove generazioni, rispetto a quelle prima dei millennials (quelli nati a partire dal 1984) hanno cambiato modo di vivere e di spendere.
Negli Stati Uniti l’hanno definita una vera e propria Retail Apocalypse, e riflette lo stato in cui il settore retail si trova: negozi fisici – grandi o piccoli che siano, presenti o meno nei centri commerciali – stanno chiudendo senza soluzione di continuità.
Tutte le grandi catene a stelle e strisce sono impegnate nel rivedere le loro strategie di azione, confrontandosi con la spietata concorrenza del commercio online e con nuovi consumatori sempre meno presenti nei grandi malls e sempre più avvezzi a comprare in rete.
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L’epidemia pare non risparmiare nessuno, partendo dalla storica catena americana di grande distribuzione Sears, che ha messo la parola fine a 150 negozi nella prima metà del 2017 – inclusi i 108 store in partnership con Kmart – e arrivando fino a Macy’s, almeno fino a inizio millennio sinonimo di shopping medio-alto, e ora invece travolta da un significativo processo di ristrutturazione che porterà alla chiusura di 100 location (pari al 15% del totale), nonostante gli analisti siano convinti che, nel tentativo di dare nuova linfa a un business ormai in stato comatoso, si renderanno necessari ulteriori tagli.
Storie (e marchi) diversi, con un unico comune denominatore: la reticenza del pubblico a recarsi nei giganteschi agglomerati commerciali dove fino a pochi anni fa venivano principalmente effettuati gli acquisti.
Dal 2010 al 2013 l’afflusso è diminuito del 50%, e anche un’azienda come Gamestop, che ha sempre potuto contare su una clientela assai fidelizzata, ora si vede costretta a correre ai ripari e a rinunciare ad almeno 150 negozi, a causa delle preferenze dei consumatori che ora si orientano maggiormente sugli store online e sul supporto digitale.
Stiamo parlando sempre degli Stati Uniti.
Vediamo la situazione in Italia.
In Italia non c’è (ancora) nessuna apocalisse in vista: nel 2016 si contavano 943 centri commerciali e pure nei primi mesi del 2017 ne sono stati inaugurati di nuovi.
A subire maggiormente gli effetti della crisi, invece, sembrano essere i negozi più piccoli che chiudono al ritmo di uno su dieci, per un totale di oltre 90mila esercizi commerciali in meno dal 2016 al 2017, secondo il report Confesercenti – Elaborazione su dati Istat e Registro delle imprese.
Al primo posto tra le categorie più colpite ci sono i negozi del tessile-abbigliamento, il cui numero si è ridotto di un quinto a poco più di 127mila negozi (-20% di boutique), che deve difendersi dall’avanzamento delle grandi catene di low price e fast fashion, seguito da ferramenta e costruzioni (-19,9%), macellerie (-17%), oreficerie, profumerie (-17,5%) e librerie (-17%).
La vera sfida, oltre a garantire un online store efficiente, risiede nell’assicurare il difficile equilibrio tra varietà, velocità e flessibilità, che le decisioni dei consumatori hanno dimostrato essere cruciale. L’arena competitiva è completamente cambiata rispetto a dieci o vent’anni fa, e il cambiamento – così come l’assunzione di un certo numero di rischi – è sia auspicabile, sia inevitabile: i retailer che nell’immediato futuro decideranno di optare per l’immobilismo avranno, purtroppo, grandi difficoltà.
Sicuramente il modello Amazon, imponendosi in tutto il mondo, ha portato numerosi venditori a cambiare strategia per non annaspare nel nuovo mercato che è andato delineandosi, un mercato ove ogni azienda che si rispetti deve possedere un online store funzionante e ben fornito, all’interno del quale le esperienze del pre e post vendita vanno curate e seguite in egual misura, pena una consistente perdita a livello di volumi di vendite.
Ma, per quanto riguarda quei marchi che possono essere definiti “medi”, dove quindi l’equazione tra una buona fattura, uno stile riconoscibile e prezzi non spropositati è in perfetto equilibrio, c’è dell’altro.
«La risposta risiede in un punto critico, cioè che i consumatori sono alla ricerca di un loro stile personale», afferma Richard Passikoff, Fondatore dell’istituto di ricerche di marketing Brand Keys: ciò che manca, secondo Passikoff, è un chiaro manifesto di quello che questi brand rappresentano, un design distintivo che li faccia fuoriuscire dal tunnel dell’assortimento indistinto e non impegnativo, che risulta quasi senz’anima.
Parallelamente, essi non riuscivano a evolversi almeno quanto il loro consumatore ormai espertissimo di social media, e hanno commesso il peccato oggi mortale di “guidarlo” nelle sue scelte stilistiche, quando invece lui non voleva alcuna guida, trovandosi poi alla fine in una specie di vicolo cieco.
Senza contare che gli acquirenti adesso spendono meno sull’abbigliamento in generale, soprattutto i più giovani, preferendo investire nell’elettronica e nelle esperienze: secondo i dati del 2015 pubblicati dal Commerce Department americano, la quota della spesa totale consumata destinata all’apparel ha raggiunto livelli storicamente bassi, con i prezzi dei suddetti marchi “medi” in netta controtendenza rispetto a tale flessione.
Il successo di brand come COS e & Other Stories dimostra che la fascia media in realtà esiste ed è in buona salute; a essere cambiato è il consumatore che li acquista, i suoi gusti, le sue abitudini e le sue esigenze.