Premessa
Da Brexit a Donald Trump, forti correnti dell’opinione pubblica appoggiano coloro che promettono un ritorno all’indietro, verso un’Età dell’Oro pre-globalizzazione.
È un vasto rigetto delle frontiere aperte, dei mercati comuni, dei trattati di libero scambio, oltre che dell’immigrazione.
Viene rimesso in discussione tutto ciò che sotto il termine di globalizzazione ha segnato l’ordine economico mondiale nell’ultimo quarto di secolo, come il cosiddetto “mercato unico”.
Back reshoring: ritorno al local
Uno degli elementi che Kevin O’Marah sottolinea come causa delle nuove modalità local della supply chain è quella relativa al rientro delle produzioni all’interno dei paesi di origine.
Secondo l’esperto, lo scetticismo di Donald Trump sugli accordi internazionali, la Brexit e il blocco del trattato Ceta tra UE e Canada sono sintomi di un declino della globalizzazione delle supply chain.
Negli Usa è stata una combinazione tra incentivi pubblici (l’amministrazione Obama ha accordato un beneficio fiscale del 20% alle aziende che tornano a produrre in casa) e crollo dei costi relativi all’approvvigionamento energetico a convincere molti imprenditori a fare rientro nel loro paese.
Il cosiddetto back reshoring vede l’Italia al primo posto, con 79 casi registrati, tra i paesi europei interessati dal fenomeno, seconda a livello mondiale solo agli Stati Uniti: il 40,7% dei 194 casi europei di rimpatrio delle produzioni riguarda proprio il nostro Paese, che si colloca davanti a Germania (20,1% con 39 casi), Regno Unito (19,1% con 37 casi) e Francia (11,9% con 23 casi), cui seguono sporadici e isolati casi nelle altre nazioni europee (8,2% con un totale di 16 casi).
A supporto della tesi ci sono i recenti dati del “Future of Supply Chain Survey 2016“, condotta da SCM World su circa 1200 manager di produzione e logistici di tutto il mondo.
Negli USA per esempio gli intervistati che stanno assumendo sono il triplo di quelli che stanno tagliando personale nelle supply chain, e il trend è positivo in tutto il mondo tranne che in Europa, dove UK, Germania e Francia vedono calare leggermente questo tipo di impiego (l’Italia non è coperta dalla ricerca), e solo i Paesi Bassi sono in attivo.
La globalizzazione, insomma, che ha “esportato” lavoro dalle nazioni industrialmente più mature ai mercati emergenti e low-cost ha compiuto il suo corso, sottolinea O’Marah, e si stanno invece affermando reti manifatturiere di scala regionale, altamente automatizzate, e molto vicine ai mercati di destinazione finale dei prodotti.
Globalizzazione debole
Se da un lato paesi come la Cina hanno recentemente annunciato che l’anno scorso le esportazioni sono diminuite su base annua, dall’altro nel 2015 il commercio globale si è ridotto in termini di valore.
Le barriere commerciali non sono aumentate in modo significativo da nessuna parte, e i costi di trasporto sono in calo a causa della forte diminuzione dei prezzi del petrolio.
Il cosiddetto Baltic Dry Index, che misura il costo di noleggio delle grandi navi utilizzate soprattutto per il trasporto commerciale a lunga distanza, è sceso al minimo storico.
Ciò indica che i mercati non si aspettano una ripresa; il che significa che i dati del 2015 potrebbero preludere a una nuova era di rallentamento del commercio.
La conclusione ovvia è che le forze della globalizzazione, un tempo irresistibili, stanno perdendo vigore.
Il recente fallimento del colosso del trasporto via mare Hanjin Shipping – che ha fatto scalpore in tutto il mondo, con decine di navi porta-container cariche di ogni tipo di prodotti immobilizzate al largo, perchè rifiutate dalle autorità portuali – potrebbe essere solo la punta dell’iceberg, in un settore che quest’anno dovrebbe perdere 4,4 miliardi di euro e che O’Marah definisce sovradimensionato e scarsamente dotato in termini di tecnologie digitali per fornire ai clienti visibilità sullo stato d’avanzamento delle spedizioni.
“Aggiungiamoci l’alta disoccupazione e le tensioni sociali nei porti, e l’incertezza sulle regole e sui trattati di commercio internazionale: alla fine le classiche sei settimane del trasporto via mare dal Far East all’occidente potrebbero diventare un traguardo irraggiungibile: gli imprevisti nei trasporti e nelle consegne sono considerati nella ricerca SCM World il rischio di supply chain più temuto del 2017 da circa 3 supply chain manager su 4″.
O’Marah, non a caso, conclude la sua riflessione dicendo che il termine “Made in China” a lungo parola d’ordine per ridurre i costi, ora appartiene al passato, e la progettazione delle supply chain deve riflettere questa nuova realtà.
Supply chain: da globali a locali
Di fatto oggi le Supply Chain globalizzate sono spesso caratterizzate da una doppia variabilitàincertezza lato domanda e incertezza lato fornitura.
L’incertezza lato domanda è enfatizzata da prodotti che, soprattutto nel caso di sviluppo di nuovi mercati, sono portatori di un contenuto di stile o di tecnologia che dà ai clienti una ragione in più – al di là della pura funzione a cui l’oggetto risponde – per acquistarli.
Nel contempo è spesso elevata anche l’incertezza lato fornitura: i processi dei fornitori sono spesso in evoluzione, quando non anche il proprio processo produttivo e la relativa tecnologia sono ancora in fase di sviluppo; l’affidabilità complessiva è bassa, perché spesso sono ancora in corso interventi di innovazione di processo.
Ciò porta facilmente ad una situazione in cui il numero di potenziali fornitori è relativamente basso, i vincoli di capacità incidono su volumi e tempi, il rendimento variabile dei processi e la presenza di potenziali problemi qualitativi diventa un’ulteriore fonte di imprevedibilità.
L’articolo di O’Marah cita la svedese Trelleborg, colosso di prodotti in gomma, come esempio dell’adozione di piccoli robot facilmente programmabili per aumentare la flessibilità e ridurre i costi in paesi ad alto costo del lavoro.
“Strategie analoghe stanno adottando per esempio General Motors, Schneider Electric, e Johnson & Johnson, ma anche piccole realtà come Marlin Steel di Baltimora, che grazie all’automazione ha quintuplicato le vendite aggiungendo soltanto 6 persone allo staff originario di 18.
L’obiettivo non era tanto di ridurre i costi, ma di aumentare fortemente la gamma di prodotti mantenendo flessibilità, per servire nuovi mercati e salvare così l’azienda”.
L’ultima considerazione dell’esperto è che produrre localmente per il mercato locale elimina molti problemi, ma per alcuni componenti è inevitabile ricorrere a distretti ben precisi, che siano Shenzen (elettronica), la Germania orientale (ottica), o Taiwan (semiconduttori).
In questi casi una piattaforma progettata in modo da avere una certa flessibilità riduce il rischio di far dipendere totalmente i propri lead time dalle forniture di distretti più o meno lontani.