AGGIORNATO AL 25 FEBBRAIO 2022
Negli ultimi anni la pressione esercitata dagli stakeholder, dagli azionisti, dai consumatori e dalle organizzazioni no profit per integrare la sostenibilità nella supply chain è aumentata sempre più.
Recentemente, sono state introdotte anche le Linee Guida G4 del GRI, che richiedono una maggiore attenzione alla logistica sostenibile.
Se le aziende riescono a gestire e migliorare le performance sociali, economiche ed ambientali nella catena di fornitura, queste possono anche evitare gli sprechi, ottimizzare i processi, scoprire nuove innovazioni di prodotto, ridurre i costi, aumentare la produttività e promuovere i veri valori d’azienda.
Tutti questi benefici trovano riscontro, nella realtà, in un numero in crescita di casi di organizzazioni che monitorano con successo il livello di sostenibilità delle loro catene di approvvigionamento, espandendo i programmi di sostenibilità affinché includano anche i fornitori.
Per la maggior parte delle aziende la supply chain rappresenta tra il 50 per cento e il 70 per cento delle spese complessive e delle emissioni di gas a effetto serra.
Sia i produttori sia i retailer di norma investono almeno la metà dei propri ricavi in materie prime e imballaggi.
In una relazione del 2010 della US Environmental Protection Agency (agenzia USA per la tutela dell’ambiente), si osserva che in molti settori del mercato americano oltre i tre quarti delle emissioni di gas a effetto serra hanno origine nella supply chain.
La maggior parte delle aziende oggi riconosce che una supply chain sostenibile non è più semplicemente un optional: è un imperativo di business, essenziale per il successo dell’organizzazione nel suo complesso in una realtà rischiosa.
Nonostante uno dei periodi più difficili e prolungati sotto il profilo economico, il Global Compact Corporate Sustainability Report 2013 parla infatti di un’attenzione ai massimi livelli sull’argomento.
Il problema è che buona parte delle 1.700 aziende e 750 CEO coinvolti nello studio trova oggettive difficoltà nel raggiungere gli obiettivi che si sono posti, soprattutto per quanto riguarda la supply chain.
Richiesta di indicare i maggiori ostacoli all’aumento del livello di sostenibilità della propria organizzazione, oltre la metà delle aziende ha indicato le difficoltà di estendere anche alla supply chain – e quindi ai fornitori – politiche già adottate internamente in altri comparti.
In realtà gli sforzi in questa direzione non mancano in termini di definizione degli obiettivi: il problema resta individuare i giusti parametri da misurare per far rispettare tali obiettivi.
Tra le ragioni, la mancanza di familiarità con l’argomento e la disponibilità di informazioni a cui ispirarsi, ma anche a partire dai quali costruire una strategia.
La scarsità di riferimenti si prospetta quindi come il principale ostacolo.
La complessità e la dimensione raggiunte dalle catene di approvvigionamento, infatti, fanno sì che nel momento in cui un’azienda decide di iniziare a raccogliere informazioni sui fornitori e relativi partner, si trova rapidamente sommersa da una quantità di dati difficile da gestire.
Tuttavia, proprio per la crescita di interesse verso queste situazioni e di sensibilità nei confronti della sostenibilità, stanno crescendo anche diverse iniziative di settore per fornire adeguati strumenti e definire degli standard.
Anche in presenza di queste opportunità, al momento il numero di fornitori monitorati in modo sistematico nelle supply chain complesse resta minimo.
Tra gli strumenti di monitoraggio poi prevalgono i più immediati, quali questionari e sondaggi, la cui affidabilità dei risultati è sempre opinabile.
Inoltre, a conferma di una sensibilità ancora per buona parte da costruire, meno di un terzo delle aziende interpellate per il Report afferma di utilizzare tutte le informazioni pubblicamente a disposizione.
Sono poco sfruttati, per esempio, dati come quelli forniti da associazioni non governative piuttosto che da Onlus, ma anche semplici blog, che potrebbero invece rivelarsi ottime fonti di segnalazione di problemi nella supply chain, permettendo così di intervenire e risolvere la criticità prima che questa diventi grave.
In un contesto mondiale dove su 7,1 miliardi di abitanti il 40% è collegato alla Rete, le notizie, soprattutto quelle cattive, fanno in fretta a diffondersi.
Qualsiasi sia il sistema di monitoraggio scelto, i capifiliera non possono permettersi di essere gli ultimi a rispondere ai problemi che sorgono nelle loro supply chain.
Il rischio è quello di ripercussioni negative non solo in termini di potenzialità di crescita, ma anche sulla reputazione e sull’immagine, senza sottovalutare il pericolo di perdere la capacità di allinearsi rapidamente alle regolamentazioni del settore.
Il pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino DOP rappresenta uno dei prodotti di più antica tradizione dell’agro-alimentare italiano e costituisce tuttora l’espressione di massima fama dell’intero comparto del pomodoro da industria, contribuendo all’immagine dell’intero agro-alimentare made in Italy sui mercati internazionali.
Negli anni più recenti, le rese produttive medie ottenute dalle imprese agricole si sono mantenute molto al disotto della resa massima prevista dal disciplinare (800 quintali/ettaro).
Gli operatori della catena produttiva dichiarano un grande interesse per la produzione, ma numerosi sono i punti di contrasto; inoltre, la posizione geografica dell’areale di produzione al confine della grande area metropolitana di Napoli, caratterizzata da una densità abitativa fra le più alte d’Europa, rende la concorrenza per l’uso del suolo molto alta.
Alla luce di queste considerazioni, migliorare la sostenibilità della catena produttiva del Smz Dop appare una necessità per assicurare la sua stessa continuità nel tempo
La produzione agricola è attualmente realizzata regolarmente da aziende che operano in un limitato numero di comuni campani (10) del Sarnese-nocerino e del Nolano nonostante l’area di produzione sia molto più estesa.
La produzione certificata raggiunge in media 3 milioni di confezioni di cui la metà nel formato di 400 grammi in banda stagnata, il più tradizionale di quelli destinati al consumatore finale.
La componente agricola della catena produttiva del Smz Dop è costituita da 161 aziende agricole organizzate in 9 cooperative di commercializzazione, che producono annualmente circa 3.500 tonnellate di pomodori freschi (campagna 2009-2010).
Il prodotto fresco è trasformato da 12 imprese conserviere: di queste, le prime 4 per volume di prodotto lavorano il 63% della produzione.
Una piccola quota della produzione (10%) è commercializzata direttamente dalle cooperative di agricoltori in filiera corta con il loro marchio, spesso nell’ambito del circuito dei Presidi di Slow Food, mentre la parte restante segue canali più lunghi, che prevedono l’esportazione verso i mercati dell’UE e degli Stati Uniti (75%) o la vendita sui mercati nazionali nei circuiti della Gdo (15%).
Inoltre, la reputazione di cui gode il prodotto in Campania e negli Stati Uniti fa coesistere due caratteristiche diverse relative al consumo.
La prima è che il luogo di produzione e consumo sono posti sia a breve distanza, come tipicamente avviene per un prodotto locale, sia a lunga distanza, come avviene per i prodotti trasformati.
La seconda riguarda ancora una volta la componente della domanda estera che è potenzialmente molto ampia, come per i prodotti trasformati, mentre la domanda nazionale è contenuta, così come avviene per i prodotti con catena produttiva locale.
Un peso rilevante è da attribuire alla logistica della supply chain.
La distribuzione del fresco appare piuttosto virtuosa analizzandone le sue peculiarità.
Le fasi di produzione e trasformazione avvengono infatti in un areale che non supera i 50 chilometri quadrati.
La distribuzione e la vendita al dettaglio richiedono, invece, che siano compiuti percorsi molto lunghi.
Solo una piccola frazione del prodotto (10%) segue canali di vendita diretta dalle cooperative agricole e si associa a valori molto bassi in termini di food miles; il restante 90% raggiunge i mercati sia nazionali che internazionali attraverso i mezzi di trasporto su gomma (Italia e Europa) e via mare per i prodotti venduti oltreoceano.
La produzione del Smz Dop è in buona parte destinato all’export, pertanto la componente dei consumi di energia dovuti al trasporto può avere solo piccoli margini di miglioramento adottando soluzioni più virtuose per le vendite in Italia e in Europa.
Spinta dal desiderio di conoscere e comprendere meglio la propria supply chain “dal coltivatore al consumatore”, Nestlé – l’azienda alimentare globale con sede in Svizzera – ha sviluppato una procedura di approvvigionamento che ha aiutato ad approfondire i rapporti con i fornitori su questioni che vanno dalla gestione idrica e la nutrizione, fino all’utilizzo dell’approvvigionamento sostenibile per lo sviluppo rurale.
Il Nestlé Supplier Code riguarda tutti i fornitori delle aziende in tutto il mondo, ed è parte integrante di tutti gli ordini di acquisto e i contratti di fornitura di ogni mercato e azienda, compresa la fornitura di materie prime agricole, area critica per la supply chain di qualsiasi azienda alimentare.
Applicando questo codice, Nestlé ha incoraggiato l’adozione delle pratiche migliori nella fornitura, e ha quindi aiutato ad assicurare alla propria attività la fornitura a lungo termine di materiali agricoli sicuri, di qualità accertata e conformi a norme e regolamenti.
Nel settore caseario, per esempio, l’azienda ha lavorato con lo Swiss College of Agriculture per sviluppare la Response Inducing Sustainability Evaluation (RISE), che valuta la sostenibilità in maniera olistica su numerose dimensioni ecologiche, economiche e sociali, compreso il consumo di energia.
La valutazione si basa sui dati raccolti a livello di azienda produttrice, utilizzando un questionario approfondito.
Dieci indicatori chiave generati dal computer individuano i potenziali punti di forza e di debolezza relativi alla sostenibilità, e Nestlé analizza direttamente con i produttori i punti in cui si può intervenire e migliorare.
La RISE non ha semplicemente aiutato a individuare le opportunità per ridurre le emissioni di gas a effetto serra.
Fornendo agli agricoltori un feedback analitico sulla valutazione simultaneamente alla raccolta dei dati, l’azienda stimola altresì ulteriori miglioramenti.
In effetti, l’impegno di Nestlé verso gli agricoltori ha aiutato questi ultimi a innovarsi e a migliorare la qualità della propria vita, proprio il genere di risultato che porta benefici a entrambe le parti e che rappresenta la chiave per il successo nella ricerca di una supply chain davvero sostenibile.
In Cina, per esempio, gli specialisti dell’azienda hanno insegnato gli agricoltori come gestire e conservare in modo sicuro il letame animale utilizzando depuratori di gas, o soluzioni per la gestione dei rifiuti che convoglino il metano prodotto.
La tecnologia aiuta chiaramente a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, ma rende anche il metano prontamente disponibile per cucinare o per la produzione di energia elettrica nelle comunità agricole.
Grazie all’istruzione e ai programmi di outreach che hanno stimolato la domanda, questa tecnologia è stata replicata in altri Paesi in cui sono presenti agricoltori fornitori di Nestlé quali, tra gli altri, Indonesia e Messico.
In Messico, per esempio, sono stati costruiti 16 depuratori di biogas in regioni che forniscono oltre il 35 per cento del latte acquistato da Nestlé Mexico.