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Il biologico "viaggia" troppo
Il mercato dei prodotti biologici è da anni in continua crescita. Gli acquirenti li comprano anche perché, oltre ai benefici per l’organismo, l’agricoltura biologica è sostenibile. Ma se ci si accorgesse che non è sempre così?


Logistica Sostenibile

Il biologico “viaggia” troppo

13 Dicembre 2010

I prodotti biologici, o “organic” come vengono definiti in inglese, hanno infatti il plus di provenire da una agricoltura in cui si certifica l’assoluta assenza di qualsiasi intervento di natura chimica facendo leva su metodi di coltivazione naturali.
Gli acquirenti li comprano per mangiare prodotti coltivati senza pesticidi o altri componenti chimici e per nutrirsi in modo sano, ma alcuni di essi lo fanno anche perché, oltre ai benefici per l’organismo, l’agricoltura biologica è sostenibile e rispetta l’ambiente in cui viviamo.

Il bio è davvero sostenibile?

In media l’agricoltura bio utilizza circa il 15% di energia in meno per produrre la stessa quantità di cibo rispetto alle coltivazioni “industrializzate” e in buona parte dei casi si ha un risparmio che può arrivare al 30%.

Ma se a conti fatti ci si accorgesse che non è sempre così? Che i benefici all’ambiente portati dall’agricoltura biologica in molti casi vengono più che compensati da una serie di conseguenze, di qualsiasi genere, che questa sta innescando, o che l’evoluzione dei consumi sta causando?
Da diverse parti si levano voci in questo senso che, pur considerando indiscutibili i vantaggi di tipo nutrizionale, avanzano seri dubbi sulla effettiva sostenibilità ambientale dell’agricoltura biologica.

Danni collaterali

Nel Regno Unito, uno dei mercati europei in cui il biologico sta riscuotendo più successo, la Soil Association (l’ente di certificazione per il biologico leader in UK) sta pensando di introdurre una serie di misure per far fronte alle crescenti critiche riguardanti i presunti “danni ambientali collaterali” causati dal trasporto dei prodotti alimentari biologici da Paesi lontani fino ai supermercati del Regno.

La richiesta di consumo “fuori stagione” di molti prodotti ortofrutticoli impone che l’approvvigionamento venga effettuato nell’emisfero opposto al nostro con conseguenti flussi di tipo intercontinentale dai luoghi di produzione a quelli di destino.

In parte dei casi tali movimentazioni vengono effettuate per via aerea, la modalità di trasporto con la più alta quantità di emissioni di CO2 per tonnellata e, al tempo stesso, quella che presenta il più alto tasso di sviluppo. Sebbene il trasporto aereo di alimenti rappresenti solo lo 0,1% del totale di tutte le modalità, produce l’11% delle emissioni dovute al trasporto di prodotti alimentari.

Anche con riferimento all’ortofrutta bio, il trasporto aereo non è altro che una piccolissima parte del totale ma, trattandosi di un settore che l’anno scorso è cresciuto del 30% e che per sua natura fa del rispetto ambientale un principio base, è comprensibile la reazione critica dell’opinione pubblica.

Bio contro tradizionale

Nel 2005 la GDO inglese si riforniva al di fuori dei confini del Regno Unito per i due terzi delle insalate e per oltre un terzo degli altri ortaggi esposti sugli scaffali. Gli stessi supermercati rappresentavano il 75% del totale delle vendite di biologico, di cui circa il 35% proveniente dall’estero.

È in questo contesto che da più parti sorgono dubbi sulla “convenienza ambientale” del consumo biologico.

Uno studio del dipartimento di Economia Rurale dell’Università canadese di Alberta presso la cittadina di Edmonton terminato nel 2005 dichiara che: “frutta e verdura biologici possono essere più salutari per la tavola ma non necessariamente lo sono per l’ambiente“.

Lo studio dimostra infatti che la produzione di gas serra durante le fasi di trasporto, soprattutto sulle lunghe distanze, mitiga notevolmente i benefici al sistema dell’agricoltura biologica.

La ricerca ha confrontato le “food miles” dei prodotti biologici con quelle dei cugini da agricoltura convenzionale arrivando alla conclusione che in media il costo per l’ambiente era superiore, seppur di poco, per i primi.
Infatti, comparando la distanza che gli ortofrutticoli coprivano dalle aree di produzione ai punti vendita di Edmonton è emerso che mediamente a livello annuale i prodotti biologici sono la causa dell’emissione di 6.348-7.124 tonnellate di CO2 mentre i prodotti convenzionali fanno registrare valori leggermente inferiori: 5.492-7.426 tonnellate di CO2.

A conferma del crescente peso del costo sia monetario che ambientale del trasporto, alcune analisi sottolineano che, ad esempio, ai giorni nostri in USA ed Europa il rapporto energetico per le coltivazioni di frutta e verdura (energia prodotta/energia impiegata) oscilla tra 2 per la patate e 0,1 per la lattuga, cioè occorrono da 0,5 a 10 calorie per produrne 1.

Nel caso si decidesse di trasportare lattuga dagli USA in Regno Unito per via area, servirebbero ulteriori 127 calorie per caloria di prodotto movimentato, portando l’energy ratio da 0,1 a 0,0073.
Analogamente, per ogni caloria di asparagi in volo dal Cile al Regno Unito ne servirebbero 97 di trasporto, mentre per le carote dal Sud Africa si scenderebbe a 66. Un paniere di circa 25 prodotti biologici può arrivare ad aver percorso complessivamente 240.000 km per raggiungere il punto vendita.

Se questi aspetti farebbero riflettere parlando di “normali” alimenti, destano ancora più attenzione trattandosi di prodotti biologici.

Sulla scorta di quanto riportato, nel Regno Unito si stanno già studiando possibili mosse orientate a rendere più consapevole il consumatore sui “risvolti” di alcuni prodotti biologici arrivando anche ad influenzarne le modalità di distribuzione. Ad esempio, le proposte della Soil Association spaziano dal semplice inserimento in etichetta del numero di “food miles” percorse dal prodotto, fino alla messa al bando del trasporto aereo come modalità di movimentazione per i prodotti bio in vendita in UK.





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