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Rapporto Industria e Filiere 2013.

L'analisi di Prometeia su industria e distribuzione in Italia.




Outsourcing

Rapporto Industria e Filiere 2013.

21 Ottobre 2013

Premessa


“Quello che potrà essere lo scenario industriale a 15 anni dalla grande crisi è ancora tutto da definire e dipenderà dalla scelte o dalle rinunce che le singole imprese e il sistema paese sapranno fare”.

Parte da questo punto il Rapporto di Prometeia “Industria e Filiere 2013”: analizzare la situazione dell’industria attuale e immaginare quali saranno nei prossimi anni i campi di intervento necessari e soprattutto quali saranno i trend su cui puntare per non restare indietro rispetto ad altri paesi.

Secondo il Rapporto, infatti, lo squilibrio fra domanda interna e domanda estera contribuirà per esempio a ridefinire molte catene del valore spostando centri di produzione, consumo e lavorazioni intermedie, ma anche modificando la struttura industriale, il grado di concentrazione delle filiere e il loro ruolo nella divisione del lavoro internazionale.

Il canale distributivo, come vedremo, ha già e lo avrà sempre più in futuro, un ruolo fondamentale.
Lo stesso paradigma di produzione è destinato a cambiare, in vista di una nuova ondata tecnologica.

“Il controllo remoto degli impianti, i sistemi di stampaggio a tre dimensioni, le tecnologie cloud permetteranno di ridefinire i rapporti di collaborazione e con questi la forma delle filiere di domani, che non necessariamente saranno costruite intorno a un legame hub spoke fra una grande impresa e tanti piccoli collaboratori dell’indotto, ma potrà finalmente prescindere da logiche di scala, un tradizionale punto di debolezza del sistema italiano, per mettere in rete eccellenze diffuse”.

Vediamo, quindi, qual è la situazione dell’industria e della filiera italiana, come analizzata nei primi mesi del 2013, e quali campi devono essere tenuti monitorati, perchè potrebbero rivelarsi l’ago della bilancia per il futuro.


La distribuzione volano dell’internazionalizzazione

Un biennio di recupero e il sorpasso su Francia, Germania e Regno Unito rispetto alla crescita delle esportazioni.

Eppure, il 2012 si era chiuso con un arretramento del fatturato e un divario da recuperare per l’industria, rispetto ai livelli prima della crisi, di almeno 70 miliardi di euro, 40 mila imprese attive e 1,3 milioni di occupati in meno.

Anche i primi mesi del 2013 hanno registrato il circolo vizioso fra assenza di mercato, perdita di capacità produttiva e clima generale di sfiducia.

Tanto che le previsioni per la fine di quest’anno sono di un ulteriore punto percentuale in meno del fatturato delle filiere industriali.

La previsione di ripresa, quindi, si sposta ad oltre 15 anni dalla crisi.
Ma cosa succederà nel frattempo? Ci sono dei campi che possono rivelarsi un’occasione di crescita, come quello della distribuzione.

Il Rapporto, infatti, spiega che la distribuzione è la fase che raccorda l’industria alla domanda: è lo strumento per fare di un ottimo prodotto anche un successo di mercato.

Nella filiera è fondamentale un sistema di approvvigionamento efficiente, in grado di compensare alcune lacune italiane sul fronte del sourcing e la dotazione di materie prime.

La distribuzione è lo strumento che sta a monte e, assieme alla logistica, diventano i fattori chiave per diventare competitivi nel campo dell’internazionalizzazione.

Le Pmi, infatti, hanno bisogno di un supporto, sia sul fronte del canale distributivo sia sul fronte logistico.

Il fatturato realizzato all’estero da imprese della distribuzione è, in Italia, del 3%; in Germania invece supera il 15% e in Francia è vicino al 10%.

Secondo il Rapporto, i prodotti italiani sono spesso “in balia” dei distributori locali, “talvolta inaffidabili, spesso con maggior potere contrattuale, generalmente con più referenze e con uno scarso commitment verso il prodotto”, mentre le insegne nazionali dovrebbero investire per aumentare il grado di internazionalizzazione.

Anche perchè la “vocazione” all’estero fa leva sugli ultimi risultati positivi: “nel triennio 2010-2012 il differenziale di crescita fra domanda interna e quella estera rivolta all’Italia, una formula che tiene conto della distanza e dell’orientamento geografico delle esportazioni italiane, ha raggiunto uno dei suoi punti di massimo, superando gli 8 punti percentuali.

Anche nel 2013 è stimato mantenersi abbondantemente sopra la media dell’ultimo decennio prima della crisi, rispettivamente 6.2 contro 4.2 punti percentuali”.

Competitività e fasi delle filiere

La meccanica continua a registrare il migliore posizionamento fra le filiere.
Rispetto alla fine del 2012, emerge una sostanziale stabilità del ranking delle filiere, ma sembra peggiorare il quadro di sostenibilità finanziaria, a causa dell’eccesso di capacità produttiva e tensioni sui tempi di pagamento fra soggetti deboli e soggetti forti lungo le filiere.

I migliori risultati hanno premiato i produttori finali, sia sul fronte della competitività sostenibile sia su quello delle prospettive di crescita.

Alcuni filiere tipiche del Made in Italy, come l’alimentare e la moda, hanno infatti registrato una presenza qualificata all’estero e una quota di mercato in crescita in alcuni mercati strategici, come quello cinese.

Nella moda emerge un progressivo impoverimento degli stadi più a monte, “dove tolta la produzione di materiali intermedi di altissima gamma, le attività che precedono i beni finali sono fortemente penalizzate da problemi di produttività e sostenibilità finanziaria che in ultima analisi potrebbero contagiare anche le fasi più virtuose della filiera”.

Anche il settore dell’alimentare e dell’arredo scontano alcuni problemi: il primo relativamente al mondo agricolo, e il secondo relativamente al venir meno del patrimonio artigiano.

Il settore che invece fa registrare buoni indici di competitività nelle lavorazioni intermedie è quello degli elettrodomestici e dell’automotive, che ha saputo diversificare la propria clientela.

Anche il mercato si è diversificato e questi settori hanno saputo cogliere il cambiamento.

“Nel caso degli elettrodomestici – spiega il Rapporto – in particolare è emersa una sorta di commoditizzazione dell’offerta nei produttori finali.

Questo processo ha portato a una massimizzazione delle economie di scala, a una concentrazione dell’offerta e a una dislocazione delle fasi di assemblaggio al di fuori dei paesi maturi con poche eccezioni relative all’alta gamma”.

Una visione europea

Lo sviluppo della dimensione internazionale è, secondo il Rapporto, un’esigenza che riguarderà veri e propri esportatori, ma anche i soggetti più a monte delle stesse filiere.

Il grado di internazionalizzazione, infatti, è oggi più contenuto nelle fasi di prima lavorazione e di sourcing, a causa di una bassa differenziazione di prodotto, di un’alta incidenza dei costi di trasporto o per la ridotta dimensione dell’azienda.

Queste imprese, secondo il Rapporto, potrebbero giovare dalla collocazione o l’ingresso in catene di valore globali, per agganciare una domanda internazionale oltre i confini territoriali dell’impresa.

Ad esempio, molte produzioni intermedie della meccanica, attraverso rapporti di fornitura con altre imprese già internazionalizzate nei nuovi mercati, beneficiano indirettamente della loro crescita.

Questo processo di internazionalizzazione, spiega il Rapporto, porta uno stimolo all’intera catena, dando vita ad un meccanismo virtuoso in grado di passare lungo la filiera e contribuendo al miglioramento della posizione complessiva dell’industria italiana a livello internazionale.
“La giusta taglia” per i prodotti italiani viene identificata dal Rapporto nella dimensione europea.

Se l’Europa ha poco da offrire in termini di opportunità per la crescita del mercato interno, può essere comunque da stimolo alle filiere in modo indiretto: può colmare le lacune legate alla dimensione e all’offerta di servizi; può portare ad un effetto moltiplicatore sullo scenario economico valorizzando la diversità dei modelli di specializzazione fra i paesi; può valorizzare le sinergie fra i grandi produttori di beni intermedi del Nord Europa e i piccoli assemblatori meccanici del Sud.

Insomma, i prodotti italiani la cui eccellenza è garantita a livello internazionale, possono trovare nei grandi operatori logistici, come quelli tedeschi, e nella grande distribuzione, come quella francese, i veicoli per crescere con successo nel mercato internazionale.

La voce delle imprese

Dopo le dichiarazioni di Andrea Bolla, vicepresidente nazionale di Confindustria con delega al fisco, che ha affermato: “Lascia esterrefatti assistere alla smentita di tutte le dichiarazioni precedenti che sottolineavano l’esigenza di non penalizzare chi produce“, sono seguite le dichiarazioni di Flavio Lorenzin, presidente di Apindustria Vicenza, del presidente di Confindustria Vicenza Giuseppe Zigliotto e del presidente di Confindustria Padova Massimo Pavin.

“Siamo stati presi in giro dalla politica – ha detto Lorenzin – Il capannone sta all’impresa manifatturiera come l’abitazione principale al cittadino, con l’aggravio che nel primo caso non si è in presenza di un bene patrimonio, ma di uno strumento di lavoro per produrre reddito”.

“Ci aspettavamo maggiore capacità d’azione, invece l’impresa è continuamente colpita“, ha dichiarato Zigliotto, seguito da Pavin: “Com’è possibile ritrovare un sentiero di crescita robusta se alla prova dei fatti il sistema produttivo è trattato alla stregua di Cenerentola di ogni decisione di politica economica e fiscale, serbatoio a cui attingere indefinitamente per la copertura di questo o quel buco?

Chiediamo al governo di tornare sui suoi passi e di ripristinare nella Legge di Stabilità la deducibilità dell’Imu, peraltro già ridotta dal 100% al 50%”.

Bortolussi della Cgia di Mestre dà per scontata la deducibilità al 50%: “Senza questa misura – dice – le imprese subirebbero un salasso, nonostante sia il caso di non dimenticare che l’importo di una tassa come la Tares vale dalle due alle tre volte l’Imu”.





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