Packaging
17 Settembre 2018
“La prima impressione è quella che conta”, si suol dire. O anche che “non si giudica un libro dalla copertina”.
In molti, e per molto tempo, hanno tentato di smentire queste affermazioni, cercando di dimostrarne la scarsa veridicità, la loro superficialità.
Sono tuttavia sempre più numerose le ricerche accademiche e le indagini di mercato che corroborano la cara vecchia saggezza popolare.
Una ricerca dell’Università di Parma sottolinea come contrariamente a quanto si possa pensare, la t ecnica del packaging non è propria del ventesimo secolo, ma della fine del diciottesimo, ed è figlia della rivoluzione industriale.
La produzione di sempre più articoli in vasta scala ha sin da subito fatto sorgere l’esigenza di distinguere i differenti beni gli uni dagli altri tanto a livello della modalità di confezionamento, quanto per la grafica da utilizzare.
La tecnica del packaging è andata via-via perfezionandosi fino ad arrivare al ventesimo secolo, quando l’estetica del contenitore dell’oggetto in vendita ha acquisito un’importanza tale da diventare quasi un vero e proprio venditore indipendente: un silent salesman, come recita una definizione d’oltreoceano, un soggetto non dotato di parola, ma pronto a lanciare messaggi nel circuito linguistico e abile a farsi capire.
Il boom dell’importanza delle confezioni si è avuta nell’immediato dopoguerra, quando la società consumistica è stata “esportata” dagli Stati Uniti fino in Europa.
Nella nuova logica di mercato andata instaurandosi, il packaging ha ulteriormente acquisito valore a livello pratico e logistico, ma anche al fine di promuovere un vero e proprio dialogo diretto con il consumatore, bisognoso di rassicurazione in quanto sprovvisto di quel contatto diretto con il luogo e i soggetti di produzione avuto per secoli.
È in questa situazione che si è sviluppata una vera e propria arte del confezionamento, un trend industriale e quasi culturale che ha orientato e continua a orientare i nostri stessi consumi.
Sul neuromarketing si è concentrata una ricerca del Dipartimento behavior and brain lab dell’Università Iulm di Milano guidato dal professor Vincenzo Russo e commissionata dal Club carta e cartoni di Comieco.
L’analisi ha sottolineato come il nostro istinto prediliga i pack di cellulosa, facilmente riconoscibili e soprattutto riciclabili.
Due aspetti non trascurabili, dal momento che come sottolinea il presidente di Comieco, Amelio Cecchini, “un consumatore in un punto vendita è mediamente esposto a circa 300 marche differenti, motivo per cui la riconoscibilità è essenziale.
Il 65% dei consumatori esprime una preferenza immediata e implicita per i pack in carta e cartone, pratici e perfettamente sostenibili – continua Cecchini – Oggi vengono immessi al consumo oltre 4,8 milioni di tonnellate di imballaggi cellulosici con un tasso di riciclo dell’80% e di recupero dell’88%”.
Oltre al valore per l’ambiente, il pack di cellulosa riesce più di altri a far leva sulle emozioni non controllate razionalmente.
In questo si conferma come l’attenzione per la sostenibilità sia riconosciuta come valore per i consumatori finali. In cifre, i pack in carta e cartone li coinvolgono maggiormente, con una media che supera il +13% rispetto ad altri materiali.
La ricerca di neuromarketing si è avvalsa anche di “Eye tracker”, un dispositivo in grado di valutare lo sguardo dei consumatori e la loro attenzione alle informazioni stampate sulla confezione.
Ebbene, dai dati analizzati dallo strumento emerge che le confezioni in cartone ricevono maggiore attenzione di quelle in altri materiali.
A parità di denominazione, ad esempio, un marchio stampato su un pack di questo tipo fa segnare un +48% di tempo di osservazione da parte dei soggetti e un +31% di osservanti, inteso come incremento dei soggetti che hanno osservato una certa area.
L’analisi considera infine la visione a scaffale: l’attenzione alle confezioni in cellulosa aumenta del 45% se posizionate nella parte alta dello scaffale, del 7% in quella intermedia e fino al 70% nella parte bassa.
Non solo neuromarketing, ma anche i classici sondaggi.
L’ultima parte del lavoro della ricerca accademica si è concentrata proprio sull’opinione dei consumatori dell’incartamento dei prodotti, per comprendere quale fosse il gradimento e soprattutto la propensione all’acquisto.
Ciò che dicono i dati è che la performance è ottimale: i prodotti confezionati in carta e cartone piacciono anche razionalmente grazie a ciò che comunicano implicitamente.
In primis un’attenzione verso l’ambiente, ma anche qualità e freschezza, novità.
I risultati dell’analisi universitaria confermano quelli di un’altra indagine condotta sempre per il Club carta e cartoni di Comieco da Astra ricerche, secondo la quale il 75% dei consumatori confessa di apprezzare un pack eco-friendly come quello cellulosico, mentre fino a un terzo degli italiani include tra i principali criteri di scelta le caratteristiche della sua confezione. Quindi sì: l’abito fa il monaco.
Proprio Comieco, nel corso degli ultimi anni, ha consolidato una collaborazione con Slow Food, facendo partire il progetto “Giusto così”.
Per combattere la sempre più crescente tendenza allo spreco alimentare, i due attori hanno ideato e realizzato una “doggy bag” (le sportine con cui si possono portare a casa gli avanzi di una cena al ristorante) in cartoncino riciclato.
“Salvacibo” e addirittura “Salvavino”, questi i nomi dei due prodotti, realizzati materialmente grazie alla collaborazione di Comieco con l’Università di Palermo e Scia imballaggi, sono stati distribuiti durante gli eventi del Salone del Gusto.
Certo, non si parla di packaging in senso stretto, ma l’esempio fornisce un ulteriore senso a quella che è la cultura del riciclo e dell’ecosostenibilità in senso lato che la ricerca dello Iulm ha specificato in numeri e cifre.
Neuromarketing, ricerche di mercato, pamphlet universitari: che il prodotto per essere venduto debba essere buono è un fatto, ma è altrettanto innegabile l’importanza che il pack ha nel tempo acquistato in seno alla società consumistica.
Il messaggio è sempre fondamentale, e l’ecosostenibilità, così come in generale l’etica associata alla produzione industriale, è sempre più trasmessa dal confezionamento della materia prima.
Un dato da non trascurare e soprattutto da non negare. Nemmeno a sé stessi.