Per decenni, le aziende hanno mantenuto le loro scorte a magazzino al minimo, con il credo di mantenere i costi e l’impegno di capitale associato il più bassi possibile.
Adottando una tecnica “JIT – Just in Time”, le merci vengono consegnate nell’esatto momento in cui è necessario, così che il numero di ordini copra soltanto la produzione corrente.
In un approccio di questo tipo, dunque, il fornitore è responsabile della gestione e del mantenimento delle scorte, nonché dell’inventario.
Christian Reinwald, Head of Product Management & Marketing di reichelt elektronik, analizza la tecnica del “Just in Time” e perché le aziende devono valutare la possibilità di rivedere la gestione del magazzino e la pianificazione delle scorte.
Per molto tempo, la filosofia del “just in time” ha avuto un discreto successo in termini di minimizzazione degli sprechi di risorse e di rinnovo degli articoli in funzione della domanda.
Tuttavia, l’arrivo della pandemia ha cambiato le carte in tavola e le nuove misure governative hanno fatto bloccare interi mercati.
Di conseguenza, scommettere su catene di approvvigionamento senza soluzione di continuità, dunque in grado di funzionare senza interruzioni, può portare alla paralisi di intere industrie di produzione o, addirittura, causare riduzioni significative in termini di vendite.
Un recente sondaggio commissionato da reichelt elektronik all’Istituto di Ricerca OnePoll ha confermato come il 36% delle aziende italiane abbia dovuto fare i conti con rallentamenti nella produzione industriale a causa di forti ritardi nella consegna di componenti e materie prime essenziali.
Nel 18% dei casi, la produzione è stata interrotta completamente a causa della carenza dei materiali, portando a un fermo della produzione tra gli 11 ed i 30 giorni nel 30% delle aziende interpellate.
Danni che hanno causato, per il 36% delle aziende italiane di medie dimensioni (tra i 50 e i 249 dipendenti), cali di fatturato tra i 50 e i 100 mila euro.
Appare evidente che tenere scorte di componenti a magazzino rappresenti un investimento, ma bisogna anche valutare il rischio e porsi una domanda fondamentale: costa di più fare scorte di componenti o trovarsi davanti a fermi produzione causati dalla carenza di forniture?
Nell’attuale clima di inflazione crescente e di tassi d’interesse negativi, ci si deve anche domandare se abbia ancora senso tenere grandi somme di denaro sui conti aziendali o se i fondi non possano essere investiti, ad esempio.
Non è prevedibile come si muoveranno le banche centrali nel breve o medio termine, ma è certo che l’offerta di beni e servizi sia diminuita.
Nello scenario attuale, dunque, tutti gli indicatori aprono la strada all’importanza di investire in beni strettamente necessari.
Per molti anni, la Cina ha servito le aziende occidentali fornendo in modo affidabile e puntuale beni e componenti.
A seguito della pandemia, la Repubblica Popolare Cinese ha adottato misure, alcune delle quali drastiche, che hanno anche avuto un grande impatto sul commercio internazionale, soprattutto in termini di approvvigionamento e pianificazione.
Ne sono un esempio le recenti riduzioni delle forniture di energia che la Cina ha messo in atto in alcune regioni, con la conseguenza che anche le aziende manifatturiere locali non sono in grado di produrre le loro merci.
Le aziende manifatturiere globali devono quindi fare i conti con relazioni commerciali sempre più complesse, con ripetuti ritardi lungo la supply chain.
La ricerca di fornitori alternativi e di relazioni commerciali non avviene dall’oggi al domani.
Come dimostra l’industria dei chip, ci sono conseguenze quando si perde quasi completamente il know-how in interi sotto-settori di componenti industriali.
I fornitori alternativi hanno bisogno di tempo per costruire capacità di produzione e le alternative globali devono prima essere qualificate.
Per queste ragioni, i ritardi nella catena di approvvigionamento ci accompagneranno probabilmente per mesi, se non per anni.
In futuro, un approccio sostenibile alla pianificazione farà leva sulla capacità di stoccaggio.
Nell’attuale situazione di precarietà economica globale, gli ordini just-in-time dalle catene di approvvigionamento estere non sono più un’opzione a medio termine.
Ne è un esempio il volume degli ordini dei clienti aziendali, aumentati significativamente negli ultimi mesi, in particolare nel settore dei componenti.
La situazione attuale e i problemi che ne derivano ci pongono di fronte ad una domanda fondamentale: quanto siamo disposti a pagare per l’elettronica?
Una cosa è certa: gli investimenti nei cuscinetti e l’aumento dei prezzi dell’energia prima o poi avranno un impatto sui prezzi.
Bisogna anche interrogarsi se, a lungo termine, l’elettronica diventerà sempre più economica e, allo stesso tempo, di qualità più elevata.
Probabilmente dovremo cominciare ad abituarci al fatto che i prodotti elettronici non saranno disponibili all’infinito.
In altri segmenti di prodotti che non sono tecnologicamente caratterizzati da cicli di vita così brevi e complessi, come l’industria del mobile ad esempio, è normale e del tutto accettabile avere tempi di consegna più lunghi.
Presto sarà chiaro quali modelli di sviluppo si definiranno e quanto saremo disposti a pagare, sia in termini di tempo sia in termini di costi, per un certo prodotto o servizio.