15 Aprile 2020
Ho potuto riscontrare in diverse occasioni che il rapporto di un’azienda con i propri KPI è contraddistinto da più fasi evolutive.
In una fase iniziale il KPI viene visto come qualcosa di complicato e di inutile, e questo dipende probabilmente dalla diffidenza nell’accostarsi a qualcosa di nuovo e dal tempo necessario per il calcolo del KPI stesso, tempo che, alla luce dello stress e della velocità che caratterizza il mondo moderno, viene quasi sempre inevitabilmente classificato come “tempo sprecato”.
Se si sopravvive alla prima fase e si decide di andare avanti, spesso si incontra la fase della “banalizzazione”.
Questa fase è caratterizzata dal fatto che si rimane piacevolmente sorpresi dal fatto che il KPI in fondo è una divisione come quella che ci hanno insegnato alle scuole elementari: una barretta orizzontale che separa un numeratore da un denominatore. Questa seconda fase a mio avviso è la più pericolosa, perché spesso conduce l’azienda a sedersi sugli allori e calcolare KPI sbagliati.
La terza fase, quando viene raggiunta, invece è quella della “maturità”, quella dove l’azienda esamina in modo critico i propri KPI, ma soprattutto li utilizza per orientarsi e assumere le decisioni corrette oppure per avviare progetti di miglioramento.
Esiste poi una quarta fase, quella “economica”.
In questa fase il nostro KPI viene tradotto in modo più o meno diretto in un valore economico: la parte variabile della retribuzione di un dipendente oppure un meccanismo bonus-malus in un rapporto cliente-fornitore.
E qui se ne vedono delle belle: improvvisamente il nostro KPI, da sterile esercizio intellettuale nonché perdita di tempo, assurge al ruolo di arbitro del nostro destino.
In questo caso, naturalmente, il KPI deve essere a prova di bomba: inattaccabile, incontestabile, verificabile, ripetibile ecc. ecc.
Implementare in maniera corretta questa quarta fase è complesso e richiede tempi ed energie, escludendo ovviamente i casi in cui possa essere “imposta” da un potere contrattuale non equilibrato.