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Gli impatti che il gigantismo navale comporta al settore portuale mondiale
Cambiano gli equilibri delle grandi rotte dell’interscambio globale: opportunità e incognite per l’Italia


Trasporti Nazionali e Internazionali

Gli impatti che il gigantismo navale comporta al settore portuale mondiale

11 Marzo 2016

Secondo Federagenti è fondamentale mettere a confronto le previsioni di crescita della flotta mondiale con le reali possibilità dei porti nazionali di ospitare le mega-ship e misurarsi con le nuove necessità che si innescheranno per sistema logistico italiano. 
Di notevole rilevanza secondo il Presidente Federagenti Michele Pappalardo è “accendere i riflettori su una delle più clamorose rivoluzioni che abbiano mai attraversato e trasformato il mercato mondiale dei trasporti marittimi”. 
Quella che viene ormai comunemente denominata la rivolta dei giganti.

Gli interrogativi in materia, oltre a quali porti in Italia possano effettivamente all’oggi confrontarsi con questo fenomeno, riguardano le capacità di reazione del sistema logistico integrato, l’efficienza del sistema autostradale e ferroviario e le capacità transhipping.
Ma ci si interroga anche se, rispetto un fenomeno del genere, in continua crescita, sia davvero possibile un’ipotesi di rifiuto e resistenza da parte dei sistemi statali e portuali.

Il quadro di riferimento del mercato mondiale

Nonostante una recessione economica mondiale e una flessione nel tasso di sviluppo della Cina, oltre che dei principali Stati che avrebbero dovuto alimentare il rilancio dell’economia globale, in 5 anni la flotta mondiale per il trasporto merci è cresciuta del 37%, con tassi annuali anche del 10%, contro una crescita media del 2% nel Pil mondiale.

Visti i dati ci si interroga sul perché sia ancora in atto una corsa alla costruzione di navi sempre più grandi e ci si chiede quali conseguenze questa corsa genererà in sistemi paese, come quello italiano, che rischiano di subire non solo il drammatico impatto dello squilibrio fra domanda e offerta, ma anche una crescente emarginazione dalle grandi rotte dell’interscambio mondiale.

In un mercato che ha cercato di ritrovare margini di redditività facendo viaggiare a velocità ridotta le navi (slow steaming) o procedendo a fusioni e concentrazioni, la corsa al gigantismo, ovvero a navi lunghe quanto quattro campi di calcio e larghe 60 metri con una parte dello scafo immersa per oltre 17 metri, è solo apparentemente motivata dal raggiungimento di economie di scala.

Le motivazioni della corsa incessante verso le grandi navi container


Interessante il parere del Prof. Michele Acciaro della Khune University di Amburgo, tra i maggiori esperti europei sui problemi della logistica connessi allo shipping, e di Sergio Bologna, noto studioso del settore trasporti, già esperto del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro per i problemi marittimo-portuali: secondo entrambi una delle motivazioni di questi continui investimenti nelle mega-ship va riportata ad un circolo vizioso che si è innescato nel mercato armatoriale.

Bologna sottolinea come la finanza dello shipping assomigli per certi versi a quella del settore immobiliare: elargiti crediti alla costruzione di navi da parte delle banche in garanzia di un bene materiale (la nave), è venuta a crearsi una bolla finanziaria che ha causato il fallimento di centinaia di fondi (KG System tedesco) e ha messo in gravi difficoltà istituti come HSH Nordbank, Royal Scotland Bank, Commerzbank.

Il fenomeno di crescita e investimento non si arresta perché le vecchie istituzioni creditizie, in crisi, sono state rimpiazzate soprattutto da banche pubbliche cinesi, dalla finanza islamica o da fondi sovrani di Paesi che hanno interesse a finanziare la loro cantieristica. La nave quindi, oggi, è venuta ad essere “sempre meno uno strumento del commercio mondiale e sempre più un puro asset finanziario”.

Michele Acciaro aggiunge che le grandi compagnie armatoriali, invece di ridurre la capacità esistente nel mercato, si sono ogni anno affrettate ad aggiungere nuova capacità sotto l’influsso dei bassi tassi d’interesse, con la prospettiva che la crescita ritornerà e le navi rappresentino appunto degli asset di lunga durata.
Sfortunatamente la pronosticata crescita della domanda è stata e rimane molto più modesta.

Come conseguenza – osserva Acciaro – vi è stato il progressivo abbassamento dei noli e la riduzione della velocità operativa delle navi, tramite il fenomeno dello slow e superslow steaming, che insieme alla riduzione degli scali e al disarmo delle navi sono forse le uniche alternative per ridurre l’effettiva capacità di stiva.
I vantaggi ottenibili dallo slow steaming, tuttavia, sono limitati nel tempo, nel senso che ulteriori riduzioni della velocità media delle navi sono economicamente e tecnicamente difficili e quindi fittizie.

Le criticità del sistema italiano

I pochi porti italiani idonei potranno ospitare solo navi sino a un massimo di 15 mila containers teu, non solo perché le infrastrutture portuali e le dimensioni dei nostri porti non consentono l’ingresso di navi di quelle dimensioni, ma specialmente perché non esiste in Italia un mercato in grado di garantire il carico sufficiente ad alimentare questi giganti.

Altro fattore preoccupante è che le grandi compagnie non prevedono scalo in Mediterraneo se non occasionalmente a Malta, in carenza di strategie politiche italiane coerenti.
Quindi le super navi provenienti dall’Estremo Oriente, allo stato attuale, scaleranno solo in Nord Europa.
A causa di ciò l’intero cluster marittimo italiano denuncia una fragilità complessiva del sistema Italia: tutti gli interventi legislativi, regolatori e infrastrutturali del settore, sono fermi al palo e il Paese si trova a subire passivamente scelte sulle quali non puó incidere perché non può neppure contare sulla definizione di un piano logistico o su scelte precise su quali porti potranno ambire a un ruolo sulle grandi rotte del trasporto container.

Ma il non essere parte della rete delle mega-ship, significa effettivamente perdere la connettività e aumentare i costi di trasporto?
L’espansione delle infrastrutture inizia a destare notevole resistenza nelle comunità portuali, e il caso di Amburgo e Anversa sono rappresentativi in questo senso; eppure la tentazione di ampliare queste infrastrutture per il beneficio delle mega-ship è forte, soprattutto a causa del timore di perdere il ruolo di hub.

Vale la pena considerare se investire scarse risorse per inseguire il gigantismo navale sia poi così proficuo o, se al contrario, non sia meglio favorire una più equilibrata ripartizione dei traffici tra i porti, magari accettando che le mega-ship faranno scalo in pochi.

E per l’Italia?
Nel qual caso si decida di investire, secondo il prof. Acciaro, è fondamentale per i porti migliorare l’efficienza e la qualità delle reti a terra, preferibilmente per via ferroviaria.
Aggiunge inoltre che se da una parte è vero che gli scali italiani non hanno le rendita di posizione di Amburgo o Rotterdam, è vero anche che la dotazione infrastrutturale a mare di alcuni dei nostri porti come Vado e Trieste e la posizione geografica di quelli del nord Tirreno e dell’Adriatico nulla ha da invidiare ai porti del nord Europa.
Solo con lo sviluppo delle reti logistiche a terra, trovando un binomio vincente tra gigantismo e ferrovia, si potrà tentare di erodere, almeno in parte, il tradizionale dominio dei porti dell’Europa settentrionale anche nei mercati confinanti d’oltralpe.





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