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L'ecosostenibilità sospetta dei biocarburanti.
Pro e contro della produzione e dell'impiego delle bioenergie, l'alternativa? Forse le alghe.


Logistica Sostenibile

L’ecosostenibilità sospetta dei biocarburanti.

1 Giugno 2012

Premessa

Tre anni fa l’Unione Europea ha firmato un’intesa con cui si impegna a produrre un decimo dell’energia destinata ai mezzi di trasporto europei con fonti rinnovabili entro il 2020.

Il continuo aumento di veicoli elettrici, alimentati in parte dall’energia eolica e solare, dovrebbe contribuire a raggiungere questo obiettivo.

Dopo il 2015 le vetture a idrogeno, che possono funzionare anche a “energia verde”, dovrebbero essere commercializzate in tempi rapidi e questo comporterebbe un positivo aumento in termini di sicurezza energetica e di riduzione delle emissioni di gas serra.

Fanno parte di questa realtà gli ormai celebri biocarburanti (o biocombustibili), ovvero quei carburanti derivati dalle materie prime agricole e dalle biomasse.

Più in generale è possibile dire che i biocarburanti sono carburanti derivati da materiale biologico, che vengono classificati nelle energie rinnovabili per la loro caratteristica d’essere riproducibili dopo il loro utilizzo purché la fonte che li genera, la terra, resti inalterata.

Rappresentano prodotti agricoli in grado di sostituire la benzina e il diesel.

La loro origine naturale è più facilmente riassorbibile dalla natura e consente di ridurre del 70% le emissioni di gas serra dal trasporto privato e diminuire l’importazione di petrolio dall’estero.

Come funziona questa nuova produzione?
I materiali, dal mais alla canna da zucchero, vengono messi in un digestore, nel quale si genera gas che serve a produrre energia elettrica e ciò che avanza, il “digestato”, adeguatamente trattato, può essere utilizzato a sua volta come ammendante per i terreni.

Sono considerati biocarburanti di prima generazione quelli prodotti da materie prime agricole, ma questi non sembrano bastare più.

Gli attuali prodotti con mais, soia o canna da zucchero non sembrano, infatti, essere più sufficienti, né come quantità né come prezzi.

Occorre passare alla seconda generazione di bioetanolo.

In Italia la ricerca di nuove soluzioni è già ben avviata, come dimostra l’utilizzo della canna comune che fornisce ampie possibilità di sviluppo.

Anche negli Stati Uniti sono in corso numerose ricerche di biologia applicata, a dimostrazione l’ultimo studio comparso sul numero di dicembre di Genetics, che rende protagonisti i lieviti, che vengono impiegati nel processo di fermentazione della massa vegetale.

Per l’Italia l’obiettivo europeo è ben presente: quel 10% al 2020 equivale a settecentomila tonnellate di bioetanolo e 1,6 milioni di biodiesel.

In Italia ci possono essere quindici impianti potenziali per i biocarburanti di seconda generazione, tra bioetanolo e biodiesel, per la produzione nostrana, esclusa l’importazione con la quale gli impianti potrebbero salire a 23.

Questo è ciò che dichiara Guido Ghisolfi, amministratore delegato della Eta Renewables e vicepresidente del gruppo Mossi&Ghisolfi.

La società sarà protagonista del primo impianto brasiliano di questi prodotti, avendo siglato un accordo con la brasiliana Graal Bio per fornire la tecnologia italiana.

I biocarburanti rimangono al centro dell’attenzione ecosostenibile del pianeta: il 2 maggio scorso, infatti, si sono messi intorno ad un tavolo i 27 Commissari europei per l’Energia per una riunione straordinaria convocata dal Segretario generale della Commissione Catherine Day.

Una riunione che avrebbe dovuto affrontare il tema delle conversioni territoriali delle aree da destinare a coltivazioni per il biofuel (ILUC).

La riunione si è conclusa, però, con un nulla di fatto.

Questo perché la stragrande maggioranza dei biocarburanti della UE proviene da biodiesel ottenuto da materie prime come la palma, la soia e la colza e la proposta di regolare l’industria del biofuel, con un finanziamento di 13 miliardi di euro, trova la forte opposizione dell’agrindustria che sostiene che lo stato della ricerca è ancora agli inizi per poter basare su questo delle decisioni politiche.

Le rivolte nei Paesi Arabi, poi, non hanno giovato: si sono subito riverberate sul prezzo del petrolio portando il greggio a raggiungere i 120 dollari a barile per la prima volta dall’estate 2008.

I biocarburanti sono tornati così al centro dell’attenzione e non solo per il loro contributo nelle politiche ambientali e nella diminuzione delle emissioni di anidride carbonica.

Ma pur ottenendo notevoli risultati, come il record di velocità su ghiaccio e l’utilizzo sui voli Lufthansa e sulle navi della Marina Militare americana, i biocarburanti presentano ancora numerosi punti di domanda.

Il rovescio della medaglia?

Sembra essere il momento delle centrali a biogas che sfruttano le biomasse, vale a dire liquami zootecnici, sfalci e altri vegetali.

Tutto è cominciato nel 2008 con la finanziaria che prevedeva un nuovo certificato verde “agricolo” per la produzione di energia elettrica con impianti di biogas alimentati da biomasse.

Gli impianti dedicati alla produzione di biocarburanti sarebbero ideali per smaltire liquami e altri rifiuti biologici, integrando il reddito con una produzione di energia che può essere utilizzata in azienda o venduta.

Ma di conseguenza che succede?
Innanzitutto, per produrre biocarburante bisogna spesso abbattere foreste per fare spazio alle coltivazioni necessarie, e già per questo è difficile parlare di sostenibilità.

Molti agricoltori, poi, stremati dalla crisi generalizzata del settore, si trasformano in produttori di energia, smettendo di fare cibo.

Altre conseguenze da non sottovalutare?
La monocoltura intensiva di prodotti mirati è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua spesso prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate.

Gli impianti stessi, poi, sono grandi strutture e per costruirle si consuma terreno agricolo sacrificandolo per sempre e si rincorrono già le prime voci sulla nascita di un mercato nero di rifiuti biologici, come gli scarti dei macelli venduti illegalmente per fare biogas.

Il fine speculativo rappresenta, infine, una problematica da non sottovalutare anche se, malgrado i rischi, creare un futuro sostenibile rimane un obiettivo legittimo.

Oltre cento organizzazioni non governative di recente hanno spedito una lettera aperta per mettere in guardia la Commissione europea?
La risposta è racchiusa in sole quattro parole: Iluc, Indirect Land Use Change, ovvero “cambio di destinazione d’uso dei terreni agricoli“.

Nonostante la scelta ecosostenibile, molti critici, infatti, avvertono che l’energia “agricola” non presenta soltanto vantaggi.

Essa contribuisce infatti all’aumento dei prezzi delle derrate alimentari.

I coltivatori tradizionali dei paesi in via di sviluppo sono allontanati dalle loro terre sulle quali viene praticata l’agricoltura intensiva con pesticidi, fertilizzanti artificiali e un impatto decisamente negativo sulla biodiversità.

L’ultima frontiera

Le alghe rappresentano una delle ultime frontiere e potrebbero effettivamente essere una soluzione per alimentare le auto, gli aerei e le navi del nostro futuro.

Ne sono convinti Elena Kazamia, David Aldridge e Alison Smith, i ricercatori dei dipartimenti scienze delle piante e zoologia dell’università britannica di Cambridge.

La soluzione potrebbe essere trovata in quella che chiamano “Synthetic ecology”: i tre ricercatori hanno pubblicato sul Journal of Biotecnology lo studio “Synthetic ecology – a way forward for sustainable algal biofuel production?” nel quale evidenziano che “La produzione di biocarburanti dalle alghe offre un grande potenziale come fonte sostenibile delle bioenergie senza competere con i seminativi e con le colture alimentari.

I batteri azoto-fissatori sono una componente essenziale della maggior parte degli ecosistemi, permettendo alle piante di fissare l’azoto per produrre proteine.

I ricercatori stanno anche cercando di combinare le alghe con i batteri che producono l’essenziale vitamina B12.”

Dato che abbiamo poca o nessuna esperienza di alghe che crescono su larga scala, abbiamo una buona occasione per provare qualcosa di nuovo, basato sulla scienza – aggiunge la Kazamia – Per i ricercatori, un nuovo raccolto di alghe rappresenta una possibilità di avviare da zero le tecniche in via di sviluppo, utilizzando la scienza per informare le tecniche utilizzate e lavorare con la natura invece che contro di essa.





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