Produttori e distributori, lungo la supply chain, stanno affrontando da tempo delle sfide difficili.
Si tratta della necessità di ridurre perdite e costi superflui dovuti essenzialmente a scorte superflue, rotture di stock, scostamenti fra la domanda e l’offerta.
Roy Shapiro, uno dei maggiori esperti di logistica a livello mondiale, ha illustrato la sua visione del problema ed ha proposto una strategia, nel corso del suo intervento al convegno Ailog “Il trasporto e la supply chain dei beni di largo consumo“.
Le sue riflessioni sono basate sulla realtà americana, ma in molti casi possono essere trasferite, con le dovute cautele e revisioni, anche all’Italia.
La risposta ai problemi della supply chain sembrerebbe semplice: aumentare velocità e frequenza delle consegne.
Ma nel mondo reale molte abitudini impediscono di raggiungere quest’obiettivo.
Elenchiamo sei azioni che le aziende possono intraprendere in questo senso:
La realizzazione degli ultimi due punti è un po’ meno diretta rispetto agli altri e richiede trasformazioni di più ampio respiro.
Gli strumenti finora utilizzati per ottimizzare la catena dell’offerta e le relazioni fra produzione e distribuzione non bastano più: oggi è necessario andare oltre, ovvero passare al Collaborative Commerce.
Per Collaborative Commerce (CC) si intende l’integrazione dei processi core business di un’impresa con quelli dei suoi clienti;
si basa sullo scambio di informazioni via web fra le aziende, che rende possibile la gestione congiunta dei processi e la cooperazione per lo sviluppo di nuovi progetti.
Maggiore informazione e snellimento dei tradizionali processi di business promettono di apportare grandi benefici, che si possono riassumere in:
In definitiva, riduzione dei costi e aumento dei profitti.
Per l’applicazione del Collaborative Commerce all’area dei beni di largo consumo, concetti quali EDI, ECR, CRP non bastano più: il CC si deve basare su un nuovo e più stretto tipo di integrazione-collaborazione, il Collaborative Planning, Forecasting and Replenishment (CPFR).
Il CPFR prevede la collaborazione fra fornitori e clienti non solo per la definizione del business plan, ma anche e soprattutto per le previsioni di vendita, che determinano i rifornimenti. In questo modo sarà possibile, per il fornitore, identificare e conoscere la natura dei comportamenti anomali della domanda e quindi interpretare meglio le variazioni negli ordini e agire di conseguenza.
Il risultato sarà la creazione di ordini più corrispondenti alla domanda, più frequenti, rapidi e in grado di prevenire rotture di stock.
Un esempio: una promozione genera un picco nell’andamento della vendite, ma se il fornitore non è stato informato della promozione, si corre il rischio di incorrere in rotture di stock; poi il produttore, non conoscendo la ragione della variazione della domanda, potrebbe decidere di aumentare la produzione, con le immaginabili conseguenze.
Il CPFR consente di eliminare l’effetto Forrester, ovvero l’amplificazione dell’entità delle variazioni nella domanda, mano a mano che si risale verso monte lungo la supply chain.
La differenza rispetto ai programmi di questo tipo avviati in precedenza (VMI, QR) risiede nel fatto che l’integrazione non avviene fra sistemi ma fra processi.
L’integrazione di sistemi comporta uno scambio di informazioni fra le aziende per sincronizzare i processi, senza modificarli; l’integrazione di processi è invece una significativa revisione dei processi stessi, congiuntamente da parte delle due imprese (condivisione di database e applicazioni).
Il primo esperimento di CPFR è rappresentato da un progetto pilota effettuato da WalMart in collaborazione con Warner Lambert Listerine, un diffuso prodotto per l’igiene orale.
I risultati in termini di rotture di stock, tempi di consegna, vendite, furono molto positivi e ne incoraggiarono l’estensione ad altri fornitori.
Dopo quest’esperienza sono nate molteplici iniziative volte a favorire la diffusione del modello (ricordiamo il CPFR Committee di VICS) e molte aziende, produttori e distributori, hanno stretto accordi di questo genere: Procter and Gamble, Unilever, Hewlett-Packard, S.C.Johnson, Kmart, Target, Sainsbury, tanto per citarne alcuni.
Tuttavia gli ostacoli da superare sono notevoli e oggi sono ben pochi i casi in cui il CPFR è stato completamente implementato. Eppure, laddove sono stati realizzati i primi step, i risultati ottenuti grazie ai primi cambiamenti sono già straordinari (si parla di riduzioni del 50% delle rotture di stock, riduzione delle scorte, miglioramento delle previsioni…).
È interessante notare come le maggiori barriere alla diffusione del CC non siano impedimenti tecnologici ma bensì resistenze umane e culturali: riluttanza a condividere informazioni strategiche e mancanza di fiducia nei confronti dei propri interlocutori commerciali, mancanza di iniziativa, difficoltà a modificare le pratiche operative utilizzate da sempre.
Tuttavia, se i vantaggi prospettati dal CC possono essere reali, tutti gli agenti della supply chain avranno come interesse primario la sua realizzazione.
Una volta iniziata la diffusione del CC presso alcune supply chain, teoricamente il vantaggio competitivo che esso è in grado di procurare costringerà tutte le altre imprese ad implementarlo, per reggere la concorrenza.
Resta da verificare se gli effetti di questo nuovo modello strategico siano davvero così potenti, immediati e garantiti come risulta dalle prime esperienze e se il CC sia applicabile e funzionante anche in mercati diversi da quello degli Stati Uniti.